2012 - Visita amici della Svizzera

 

L’ultimo del gruppo degli Svizzeri ad arrivare sulla scena, è lui, come s’addice ai protagonisti in commedia, con la sua maglia arancione, la banda a scacchi e i badge LAVERDA, Jörg Strehler, Giorgio Strehler, come ama farsi chiamare, e il nome italiano ce l’ha scritto sul petto. Ogni accostamento al mitico regista del Piccolo Teatro di Milano è puramente casuale. L’italianizzazione del nome deriva dalla sua passione per l’altrettanto mitica casa motociclistica di Breganze, di cui è un appassionato cultore e cacciatore di ricordi, testimonianze, articoli, attestati, contratti, scritture varie e di immagini degli eventi che hanno dato vita alla storia di Laverda. In oltre 30 anni di frequentazione dei mercatini, dei personaggi legati all’azienda, degli addetti ai lavori, ha collezionato una documentazione impressionante, una delle più ampie a livello continentale, che ha portato con se in quei 3 faldoni che vedete nel tascapane e che alla fine della visita mostrerà con orgoglio a Emilio Bariaschi. “Io non ho tutti i soldi che sarebbero serviti a mettere insieme la collezione di Laverda che vorrei [ne ha comunque 7, alcuni pezzi sono stati immortalati in servizi di vari magazine europei, perciò mi sono dedicato alle Laverda anima corpo e testa attraverso documenti e foto. Ed Emilio, osserverà compiaciuto che un buon 50% di quel materiale è anche in suo possesso.
Sono arrivati in 18, un po’ da tutta la Svizzera. “Ma io sono del centro, il Cantone di Schwyz” sottolinea Giorgio. Ed è questa, anche per Emilio l’occasione di riandare agli anni di lavoro alle Ferriere Cattaneo di Giubiasco, vicino a Bellinzona. Insomma, tra primattori la comunanza, per non dire la complicità, è un fatto immediato.

 
 
 
 

Oggi è il 22 ottobre, sono le 9.30: abbastanza inconsueto un gruppo in visita al museo di lunedì. È che ieri, domenica, si sono dedicati alla caccia grossa nei giacimenti tecnologici intorno a Vicenza, in particolare a due santuari della passione motociclistica, una collezione privata in una villa veneta a Malo, tra Schio e Valdagno, che raccoglie 160 moto, solo Guzzi, per continuare con il Museo Nicolis a Villafranca di Verona e solo a sera sono arrivati sulle rive del Po, sponda mantovana, per degustare i tesori della cucina gonzaghesca.
Per questo, dopo averne viste tante, in loro sorge spontanea la domanda chi ha restaurato tutte queste moto? Io !!! - altrettanto naturale e immediata è la risposta di Emilio con relativo scatto d’orgoglio - basta guardare alla parete la sequenza fotografica del ripristino della Mondial 200. Tutti i restauri sono opera mia !!! È un susseguirsi di incredulità, stupore e meraviglia in un crescendo di ammirazione.
… E dal Laverdino 50 inizia la scansione delle Laverda… che proseguirà nella seconda sala, dalla 75 cosiddetta “del prete”, alla “tarantina”, alle numerose sport, prima le 75, poi le 100, fino alla 200 “twin”.

 
 
 

Senza tralasciare la concorrente delle Laverda che qui con grande simbologia le è stata posta di fronte, la fila dei Capriolo della Caproni , le moto nate ad Arco di Trento, con il loro schema concettuale raffinato di ispirazione Zundapp e BMW: del resto negli anni ’50 fu confronto reale, nelle competizioni e sul mercato. In particolare quel bellissimo esemplare di Capriolo Cento50 [scritto così, in lettere e in cifre] poco conosciuto, soprattutto all’estero, che molti dei presenti vedono per la prima volta. D’altronde ce ne sono pochi in giro perché pochi ne sono stati costruiti e venduti, dato l’elevato prezzo d’acquisto.
Ma lo sguardo si sofferma anche su una specialità tipicamente, anzi, unicamente tedesca, la Hercules con motore Wankel prodotto dalla Sachs all’inizio degli anni ’70.

 
 
 
 
 
 
 

Per giungere infine davanti allo schieramento delle Gilera, che sono un po’ il nucleo fondante del museo e il fulcro della passione di Emilio Bariaschi. E a domanda sulle gigantografie alla parete del Saturno Sanremo che è stato il grande amore di gioventù di Emilio, risponde il professor Bariaschi con una vera e propria lezione, Giorgio traduce per gli amici, dopo aver precisato che lui l’italiano non l’ha imparato a scuola, ma a pelo, trafficando nei mercatini.
E parte la requisitoria di Emilio: Tutta la ciclistica del Sanremo, forcella anteriore, forcellone posteriore, telaio, è tutta in lamiera scatolata, una soluzione volta a risparmiare peso, per quei tempi molto avanzata, ma piuttosto costosa. La ruota anteriore è di 21 pollici con freno centrale-laterale di diametro molto largo, la ruota posteriore è da 20 pollici.
Questo modello è denominato Sanremo perché vinse diverse edizioni consecutive del Circuito di Ospedaletti tra la fine degli anni quaranta e l’inizio dei cinquanta. Quello di Ospedaletti era un circuito molto tortuoso e tormentato che consentiva al motore del Saturno di esprimere al meglio le sue grandi qualità: aveva una fortissima ripresa anche ai bassi regimi e poteva tirare fino a 6.200 giri, per cui aveva un raggio di utilizzo molto ampio, dell’ordine dei 3.500 giri. Il pezzo di telaio della parte posteriore, unico a sezione rotonda, è più piccolo di quello del Saturno di serie e gli astucci portamolle della sospensione posteriore contenevano le due molle.

 
 
 
 
 
 
 
 

Eh sì, la tentazione di quello che nella vita fa il poliziotto, di prendere in mano la paletta utilizzata dal vigile guastallese Franzoni [indimenticabile per i giovani scavezzacollo motorizzati dei tempi andati] è stata molto forte e si è fatto immortalare dagli amici.
Ma lui non ha per niente la grinta del tutore inflessibile dell’ordine stradale.

 

Siamo di nuovo a parlare dei Capriolo e della distribuzione a tazza tipica del loro motorino, che gira con la regolarità e il suono tipico di un orologino e per questo piace molto agli Svizzeri. Sì, ma i Monoalbero Corsa hanno l’albero a camme in testa. Vi mostro il castelletto con l’albero a camme di uno, basta togliere il coperchio punterie - dice Emilio – del tipo Corsa ne dovrebbero essere stati prodotti meno di 25 esemplari, io ne ho 3. E sfila il coperchio per far vedere che non c’è il classico sistema del comando punterie a tazza, ma si tratta di un vero monoalbero con la trasmissione a ingranaggi a coppia conica. Questi due esemplari sono tra gli ultimi costruiti dalla Caproni, giravano a 11.000 giri, erano molto, molto veloci, ma molto delicati, si rompevano facilmente , erano i bilancieri a cedere, perché tutti gli organi erano stati rimpiccioliti per stare nello spazio ristretto della testa cilindro.